Umberto Buscioni. Quel che resta è la pittura

  • Maurizio Calvesi, presentazione in catalogo, testi di Carlo Frittelli, Adolfo Natalini, Umberto Buscioni
  • Carlo Cambi Editore
  • Poggibonsi
  • 2008
  • ISBN: 9788864030036

Qualcuno pensa che il Buscioni non parli lingue estere, che non guidi macchine veloci e neanche più motociclette rombanti o biciclette celesti e che non piloti aerei sopra le nuvole.
Quel qualcuno si sbaglia di grosso: il Buscioni ha il dono delle lingue (anche per lui c’è stata una Pentecoste) e si muove e vola in terra e in cielo.
Dalle sue conversazioni poliglotte e dai suoi spostamenti per ogni dove riporta i pezzi di mondo e di persone che ci consegna trasformati in cristalli colorati nelle sue tele. Lo sguardo del Buscioni non è lo sguardo di Medusa che pietrifica: è uno sguardo amoroso e malinconico che legge, decifra, compatisce e consola.

Adolfo Natalini

 

Tra aria e fuoco
di Maurizio Calvesi

Non posso abbordare uno scritto su Umberto Buscioni senza ricordare – e rendergli omaggio – uno dei critici più attenti dei leggendari anni Sessanta, e di più autentica, sincera sensibilità: il fine poeta Cesare Vivaldi, che della “Scuola di Pistoia” fu lo scopritore e il primo esegeta (almeno che io ricordi). Si era nel pieno di quella irripetibile stagione quando in una rivista a me vicina, Collage n. 6, del febbraio 1966, apparve uno scritto di Cesare che aveva per oggetto appunto “la scuola di Pistoia” (Barni, Buscioni, Ruffi); scritto solitario ma seguito l’anno dopo da una costellazione di interventi dello stesso Vivaldi, di Barilli, Menna, Di Genova, John Canady, J. Jaffe Young. Poi ancora altri scritti di Vivaldi nel 1968,1969,1973,1982,1992; infine, nel lasciarci, una poesia pubblicata nel 2005, intitolata I Campi Elisi:

Qui sono i Campi Elisi,
in questo gruppo di tetti neppure cinto da mura,
in questa valva d’ostrica che è la tua casa
dove riesci ogni giorno a inventare una perla:
il colore azzurrino, l’altro appena rosato,
la bottiglia di plastica,
cravatte che sventolano come bandiere…

Quanto rimpianto, caro Cesare, per una critica che così zampillava dal cuore.

Barilli ricorda di non avere avuto dubbi, assieme a Vivaldi, fin dall’inizio, che i tre pittori «si dovessero ascrivere a episodio tipico e caratterizzante della Pop Art in stile italiano, nonostante la loro cocciutamente proclamata provincialità di artisti nati e cresciuti in una cittadina della Toscana, da cui praticamente non si sono allontanati». Esempio di vitalità, davvero, della nostra provincia, ma esempio abbastanza eccezionale, e solo relativamente “provinciale” se si pensa di quali capitoli dell’arte sono state protagoniste, nei secoli, le cittadine toscane.

Come dire, buon sangue non mente. E non a torto Barilli ricorda i manieristi toscani, da Pontormo, a Rosso Fiorentino e al Beccafumi, amati e citati, del resto, in seguito, dallo stesso Buscioni, e indubbiamente congeniali a quegli attorcimenti e arricciature in «assenza di carne», che Barilli (autore lui stesso di un bel libro sul Manierismo) nota nelle spoglie di Buscioni, invase e agitate dall’aria, dal vento.

Bachelard, nel suo L’air et les songes, scrive a proposito del rèveur nel segno dell’aria, che «il réalise la synthèse de la légèreté et de la clarté. Il a conscience d’ètre libéré à la fois du poids et de l’obscurité de la chair. Il semble qu’un azur, parfois une couleur d’or, apparaissent sur les sommets où le rève nous élève». Proprio questo rèveur è Buscioni.

Tende e cravatte, svolazzanti, compaiono fin dai primi quadri del suo esordio “ufficiale” (dopo gli anni dell’informale), non le cravatte zummate e infilzate come farfalle sotto vetro dallo sguardo macroscopico di Gnoli, ma nastri vivi e sottili come serpi, schegge impazzite di colore.

Subito dopo, ancora nel 1965, cieli e persiane, con un ricordo di Tano Festa ma agli antipodi della sua greve malinconia: finestre che già si affacciano sui “Campi Elisi”, che attingono a un sogno di ascensione.

La «psicologia ascensionale» (come avrebbe detto ancora Bachelard) di Buscioni è di tutta evidenza. Cravatte, sì di nuovo cravatte, il più volatile degli indumenti, con vessilli, aquiloni, dépliants, scarpe e camicie come sciarpe convergono in una fantasia sbandierante, poggiano su giacche, poltrone, prati svuotati a loro volta di peso, come nella festosa celebrazione di una vittoria sulla gravità. Non a caso si avvicina, dopo il volo di Gagarin, lo sbarco sulla luna e Buscioni sogna di trasferire in quelle atmosfere assolte dall’attrazione terrestre le sue forme multicolori, ora anche le sue biciclette e motociclette smontate, dalle delicate e lucenti cromature. Al di là del cielo si intitola eloquentemente, un dipinto del 1968, mentre II vento delle eliche associa elicotteri e mulini facendo volteggiare strisce di seta colorate e forme cubiche che stanno ai solidi geometrici come il non-senso sta al senso.

Nodi che si sciolgono, del 1970, è ancora il racconto di una vita da foulard, in un tripudio vivace ma delicato (come si addice alle trasparenze dell’aria) di colori. Quelle rigature che gli astrattisti del precedente decennio presentavano nella loro fissa rigidezza, e programmatica scala di toni, vengono ora piegate alle curvature naturali dell’arcobaleno e assolvono l’astrattismo dalla sua frigidità riportandolo a una sventolante realtà di impatto non lontano dal Pop.

Gli anni Settanta e Ottanta spaziano tra cielo e terra, “Deposizioni” e “Resurrezioni”, come sudari che, arrotolandosi e srotolandosi, si colorano in una danza risucchiata dall’alto, sfiorata da una punta di misticismo, come si addice ad ogni «psicologia ascensionale».

Ma ora Buscioni si appresta a traslocare il proprio pennello dal segno dell’aria a quello attiguo del fuoco, nel mio scaffale di critico devoto alle ineguagliabili intuizioni di Bachelard ripongo L’air et les songes per estrarne La psychanalyse du feu. Occhi di santi attingono il cielo, ma angeli ribelli sgradinano improvvisamente in baratri di nero, pur riscattati da memorie di azzurro. Angeli di fuoco costeggiano con le loro accensioni le «nostre ombre» serotine. L’alto e il basso convivono nel segno del fuoco: «Il vit dans le del, il monte des profondeurs de la substance et s’offre comme un amour. Il redescend dans la matière et se cache. Parmi tous les phénomènes, il est vraiment le seul qui puisse recevoir aussi nettement les deux valorisations contraires: le bien et le mal. Il brille au Paradis, il brulé à l’Enfer».

I rossi si insinuano nella chiara tavolozza di Buscioni e gradualmente espandono la loro presenza. Tutti rossi saranno nel 1987 i Testimoni di fuoco, come nel 1990 l’Angelo di fuoco con giacca, lingue di fuoco si insinuano come un principio di incendio in La costruzione e il fuoco del 1990, assediando dei blu assai più cupi degli “azzurrini” cantati da Vivaldi.

“Le nostre ombre”, danno il titolo a una raccolta di dipinti tra il 1990 e il 2005 che presentano «recenti lavori di statura monumentale, concepiti quasi seguendo la paratassi evocativa di un fregio o d’un ciclo di affreschi: pagine in sé autonome ma nello stesso tempo capaci di rimandare a quella solenne narratività che era propria del Rinascimento e della Maniera, vale a dire di crogiuoli figurativi frequentati dal nostro artista per affinità di esperimento cromatico e nella consapevolezza dell’incerto discrimine che intercorre tra maestà e crisi della forma». Così scrivono Antonio Paolucci e Carlo Sisi. «Le opere di Buscioni si riannodano dunque alla storia».

II testo non ricorda (‘“anacronismo”, da me teorizzato in apertura degli anni Ottanta, che è stato certamente dietro a questa svolta critica di riflessione, che tuttavia, in Buscioni, assume forme assolutamente autonome e scevre di interferenze con i modi dei “miei” anacronisti. Anzi molto lontane da essi.

Il pensiero contemplante prende il posto della gaiezza e dei sogni di ascensione, mette a confronto, nel fuoco ardente, «l’instinct de vivre et l’instinct de mourir», il passato, il peso glorioso del tempo e la fuggevolezza del presente. Il fuoco genera la luce ma anche la cenere, e la luce genera l’ombra. Ecco «le nostre ombre», talvolta infatti cineree, nella fase più matura e improvvisamente drammatica dell’arte di Buscioni.

«Non sono stati anni facili quelli di Buscioni – ha scritto splendidamente Marco Cianchi – dopo il 1969. Anche per lo scioglimento del gruppo, che sempre sostiene, sospinge, consola. Ma soprattutto perché il clima era improvvisamente cambiato. Alla felice ebbrezza del boom economico subentrava infatti una stagione difficile, problematica, caratterizzata da spinte e fratture, senza immunità per l’arte».

Da questo «tunnel» Buscioni è uscito «come per incanto, alla fine degli anni Settanta, attraverso la storia. Dopo la grande bonaccia, Buscioni aveva ritrovato il vento! Scrisse più tardi: “Per un vento di cui non è dato conoscere la provenienza, immobile, enigmatico, senza tempo, soffiato su colori sconosciuti, consiglierei di vedere la Deposizione del Pontormo a Santa Felicita”».

Un vento che asciugava, come il fuoco da cui era prodotto, e lasciava anche ombre e cenere, figure a volte con celate aureole di santi, come in Controluce con ombre, del 1996, dove l’ombra-cenere si appaia alla luce-fuoco.

Opere cariche di quella gravità, di cui sono svuotate in senso fisico: e però non sono più le spoglie leggere e felici degli anni Sessanta, ma ombre appunto, ombre terrestri, qualcuna accesa da un riflesso del fuoco e qualche altra già spenta, sotto a un carosello di angeli trascorrenti come nubi nel grigio di una sera che attende la lunga notte, ma fiduciosa nel solare risveglio. Come attesta l’audacia di rossi frantumati e scoscesi, trionfanti sui grigi e sui neri, in quel capolavoro che è Deposizione Resurrezione del 1978.

Qualche anno dopo Bill Viola presenterà alla Biennale un suo video di straordinaria sospensione e bellezza, ispirato proprio alle forme lievitanti del Pontormo.


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