Umberto Buscioni ,presentazione in catalogo

  • Cesare Vivaldi
  • Studio d’Arte Condotti 85
  • Roma
  • 1969

Umberto Buscioni dispone i suoi oggetti, indumenti, bandiere, aquiloni, con in più qualche volta la conturbante presenza d’una motocicletta, contro grandi e chiarissimi cieli: trofei di una vita umile e banale riscattati dalla grazia della luce. Nei suoi quadri la luce è l’incontrastata protagonista: gioca tra i fili d’erba, li separa l’uno dall’altro quasi fossero minuscoli bastoncini di plastica, marezza le stoffe, che si irrigidiscono in un fruscio di pieghe seriche come le vesti dei personaggi di Mario Broglio. La poetica del « quotidiano » di Buscioni fa tornare in mente insieme a molti nomi persino quello di Vuillard, e un poco francese (ma si tratta pur sempre d’un francese parlato da una bocca toscana, come il francese di Severini) è il modo in cui egli sa accostare colori straordinariamente tenui e delicati, con sottili dissonanze e finissime variazioni di bianchi e di grigi. La scansione metafisica delle sue forme ci riporta abbastanza curiosamente al clima di Valori plastici (non a caso ho fatto prima il nome di Mario Broglio), al clima puristico degli anni venti. Ma la rigidità puristica è trasfigurata in un vagheggiamento cromatico che fa perdere ogni oggettività alle cose, per quanto il segno (a volte secco da ricordare lontanamente Ben Shahn) cerchi di definirle nel modo più fermo. Come ha scritto benissimo Renato Bari Ili, presentando i tre pistoiesi Barni, Buscioni e Ruffi (insieme a Filiberto Menna e a chi scrive) in una mostra alla Nuova Loggia di Bologna nel 1967: « Le immagini di Buscioni sembrano non avere spessore… Il nostro artista è quello che va più avanti di tutti nel proposito di strappare pazientemente dalle cose una specie di pellicola, di velo esterno, diafano, trasparente, ove però i loro connotati icastici sono presenti sino all’ultima nervatura. Di tali splendide spoglie Buscioni è l’estasiato collezionista, quasi erborista, come se le racchiudesse a seccare tra le pagine di un album. O meglio ancora quelle pellicole trasparenti, quelle bucce ancor palpitanti… egli le espone ad asciugare all’aria, appendendole come panni bagnati, non riuscendo a impedire che, data la loro millimetrica consistenza, si arriccino, si inarchino, come se percorse da una leggera corrente elettrica ».

L’inconsistenza, l’indeterminatezza persino — nonostante la cura con cui i particolari sono esaminati, uno per uno — degli umili oggetti di Buscioni, deriva dal fatto che egli non obbliga mai lo sguardo verso un unico « centro ». Buscioni dice tutto in modo chiaro, ma lascia aperto un ampio margine al sogno attraverso la delicatezza dei colori, come soffiati sulla tela, e più ancora attraverso la fitta rete di analogie e di relazioni stabilita dai tanti minuti dettagli, da quelle « favolose avventure di pieghe, di bottoni, di stoffe e tessuti » (per citare ancora Barilli) che si susseguono l’una all’altra con un moto così vorticoso da finir quasi con l’annullarsi reciprocamente. Nonostante talune apparenze Buscioni non ha mai adottato un’ottica pop, non ha mai macroscopizzato il particolare a spese dell’insieme, ma ha subito abbastanza l’influenza dell’ottica pop da compiere un’indagine approfondita, senza alcuna preferenza, di tutto quanto rientra nel suo campo d’osservazione. Ma nell’indeterminatezza di cui ho parlato c’è forse come un riflesso della vecchia poetica surrealista di Buscioni, ancora nel 1965 pittore di giardini incantati, grovigli di rami e di foglie palpitanti come viluppi di viscere, quasi sempre esterni visti da un interno, in un colpo d’occhio che confondeva i piani e li faceva avanzare o indietreggiare arbitrariamente, fusi in un unico, vago ondeggiamento. Poetica surrealista che a sua volta aveva un antefatto in un gruppo di quadri non so quanto consciamente Cobra dipinti da Buscioni nel 1963, quando egli abbandonò il suo lavoro di operaio ceramista per dedicarsi interamente alla pittura.

Buscioni è arrivato ad essere un pittore d’importanza nazionale, un artista d’avanguardia, attraverso pesanti sacrifici e un lavoro durissimo, superando con fatica ostacoli quali il lavoro operaio, la condizione di vita più che provinciale quasi campagnola, l’autodidattismo. E’ meraviglioso che egli abbia saputo conservare una capacità infantile di sognare ad occhi aperti, un candore di sguardo che lo porta a scoprire meraviglie nel più povero e logoro pezzo di stoffa.

Cesare Vivaldi

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